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Il tessuto connettivo ed i suoi misteri
Indagine su un tessuto al di sopra di ogni sospetto: la fascia
Una celebrità tra i tessuti organici
Quando si parla del corpo umano, in termini di anatomia e fisiologia, la prima immagine che viene in mente è spesso quella dell’apparato scheletrico, la nostra struttura di sostegno più profonda, poi forse i muscoli o qualche organo importante.
In realtà il corpo umano ha in sé una considerevole complessità di tessuti dalle diverse qualità e densità, tra cui uno in particolare, che negli ultimi anni ha sollevato molto interesse da parte di osteopati, terapeuti manuali, danzatori, atleti e tutti coloro che lavorano con il corpo: sto parlando della fascia.
Il grande interesse, a volte quasi maniacale, che sempre più cresce nei confronti di questa struttura è dovuto a diversi fattori, che hanno a che fare principalmente con la storia stessa dell’indagine dell’uomo su sé stesso, dal momento che solo in tempi recenti si è compresa l’importanza del tessuto fasciale, come vedremo ma anche in seguito al sorgere di una nuova visione della relazione tra la nostra specie e il pianeta, che guarda ad una esistenza più totale, unificante e onnicomprensiva.
I primi anatomisti, ai tempi di Galeno prima, e di Vesalio poi, avevano un solo metodo per condurre le loro indagini esplorative: tagliare. Girano molte storie leggendarie, degne di Lovecraft o di Poe, sulle dissezioni condotte all’epoca, e su come questi primi pionieri si procurassero i corpi, che potrebbero facilmente essere scambiate per il soggetto di un film.
Molti membri dell’ambito medico all’inizio guardavano con scetticismo e orrore questo tipo di ricerca: alcuni per questioni legate alla fede religiosa, ma molti altri sostenevano che nel processo della morte il corpo subisse una trasformazione talmente profonda da non rispondere più alla biologia della vita, e quindi studiare l’anatomia sui cadaveri non poteva considerarsi una ricerca utile, né tanto meno attendibile. In realtà il lavoro degli anatomisti, tra cui ricordiamo anche il nostro Leonardo da Vinci, rappresentò una base importantissima per lo studio del corpo umano, e il concetto anatomico condizionò per secoli l’idea che l’uomo si è fatto di sé stesso.
Bisturi? No, grazie
All’epoca dei primi pionieri dell’anatomia ancora non erano stati inventati gli strumenti adatti a questo tipo di indagine, per questo venivano utilizzati coltelli da caccia o da macelleria per le dissezioni, poiché solo in seguito si poté disporre di bisturi e di altri strumenti di precisione.
La radice etimologica della parola anatomia, in effetti, deriva dal greco ανατομή, anatomè, cioè proprio “dissezione”, formata da ανά, anà ossia “attraverso”, e τέμνω, tèmno che vuol dire “tagliare” , separare le parti, insomma, dividere. Neanche andando troppo per il sottile, in questo caso: nel tentativo di rivelare i misteri nascosti nei recessi del corpo umano, questi pionieri avidi di sapere tagliavano malamente tutto ciò che si trovava in mezzo tra un tessuto e l’altro, tra un sistema e l’altro, recidendo tutte le barriere di connettivo, con la grave colpa di averne a lungo offuscato il prezioso ruolo.
La divisione non si è operata solo a livello organico, ma il concetto stesso di corpo umano è stato per secoli intellettualmente legato a questa divisione, quasi violenta, che vede i sistemi separati l’uno dall’altro, così come compaiono su ogni manuale di anatomia. Ci si è per secoli dedicati all’osservazione delle singole parti senza comprendere che queste funzionano solo come sistema unificato, in costante e reciproca interrelazione.
Forse avevano ragione i detrattori nel considerare il corpo vivo profondamente diverso da quello senza vita sul tavolo dei teatri anatomici?
La scoperta delle funzioni del tessuto fasciale e dei suoi importanti, molteplici compiti nella ripartizione biodinamica delle forze che attraversano il corpo, è stata decisiva nel rivelarci molto si come la nostra natura di perfetta opera di ingegneria, viva e in movimento, sia essenzialmente un’unità organica funzionale perfetta e indivisibile.
Se si potesse isolare la struttura di connettivo, ossia il tessuto fasciale, da tutto il materiale cellulare, potremmo ammirare sbalorditi questa fittissima e complessa rete, che qualcuno ha paragonato ad una sorta di ragnatela tridimensionale, che si diparte dallo strato basale della cute, densificandosi nel tessuto fibroso che riveste gli organi, i muscoli, le ossa e la ‘pelle’ delle cartilagini che rivestono le ossa: un continuum che pervade tutto il nostro corpo, rivelando la vera identità di questa struttura, ossia un ‘organo della forma’, nonché il più esteso tessuto de corpo, dal momento che ne rappresenta il 20% del peso complessivo.
Sono proprio queste caratteristiche a renderla capace di connettere, appunto, unire e sostenere l’intero sistema. Affrontare lo studio della fascia vuol dire mettere in discussione l’idea stessa della forma che ci arriva direttamente dal concetto anatomico, così fortemente condizionato dalla visione di quei pionieri dal bisturi facile.
I treni di Thomas Myers
Immaginiamo un pompelmo tagliato a metà, facendo esattamente ciò che i primi anatomisti fecero con il corpo umano, per osservare al suo interno come il frutto compaia suddiviso in scomparti più o meno regolari, organizzati attorno ad un centro. Partendo dall’esterno verso l’interno, è possibile osservare lo strato esterno della buccia, protettivo e designato ad interagire con l’esterno, esattamente come la nostra pelle.
Poi lo spesso strato interno della buccia, che è molto simile al nostro strato di grasso sottocutaneo, un indispensabile involucro che tutti noi indossiamo. In seguito possiamo osservare come ogni spicchio sia contenuto in una membrana, che è a contatto con la membrana dello spicchio adiacente, esattamente come nel nostro corpo quasi sempre le membrane si presentano come un doppio strato. All’interno dello spicchio, infine, le particelle di succo sono a loro volta inserite in altre membrane più sottili, dalle pareti trasparenti, come le membrane delle nostre cellule. Senza questa struttura il pompelmo sarebbe solo una piccola chiazza di fluido.
Allo stesso modo, senza gli involucri fasciali che organizzano il nostro ‘succo’ in fasci distinti, noi saremmo solo materiale in caduta libera sotto l’azione della forza di gravità.Thomas Myers, nel suo fantastico libro ‘Anatomy Trains’, in italiano “Meridiani Miofasciali”, una pietra miliare per chiunque fosse interessato ad approfondire la conoscenza della fascia, ha trovato un formidabile esempio per descrivere questo tessuto, rendendo facilmente comprensibile la sua funzione, in termini di forma, in modo diretto e senza troppi giri di parole.
Fascia e miofascia: un continuum dai molteplici volti
La fascia quindi non è solo l’organo della connessione, ma anche ciò che ci struttura nella forma in cui ci riconosciamo, e molto altro, considerando anche il suo ruolo nella gestione e trasmissione del movimento.
Sui libri di scuola viene dato pochissima importanza al tessuto fasciale, che rimane sempre una presenza misteriosa all’interno del nostro corpo, spesso indicata semplicemente solo nella sua manifestazione di miofascia, descritta in modo sbrigativo come una serie di sacchetti che avvolgono i muscoli, come la linea bianca che separa un muscolo dall’altro o poche informazioni in più.
La miofascia è un prodotto del connettivo, che si compone di una schiumosa e soffice struttura extracellulare, una specie di marea, di oceano interiore che si muove fluido e sorregge cellule e strutture, mantenendole al proprio posto ma permettendo loro al contempo di muoversi in armonia. Ciò che Grey chiama Matrice Extra Cellulare, o MEC, quindi, si è sviluppato per distribuire le tensioni date dal movimento e la compressione della gravità, mantenendo contemporaneamente forma e posizione ai diversi componenti del corpo: una matrice vivente continua e dinamica che si estende ad ogni angolo del corpo.
Il fascino irresistibile che questo tessuto ha avuto, negli ultimi anni, tra i ricercatori di tutto il mondo, comunque, oltre al suo mistero ancora in parte inviolato, che alimenta la sete di risposte, è dovuto anche all’importantissimo passaggio compiuto come specie, da una visione meccanicistica del corpo umano ad una olistica, ossia dalla visione del corpo-macchina-automa alla concezione di un corpo-organico-unità- : un raffinato organismo che riesce a funzionare solo se tutte le sue parti sono connesse tra loro, in un potenziale unitario che è maggiore rispetto alla somma delle singole parti che lo compongono. Non solo le parti relative all’aspetto materico, ma anche quelle più sottili, richiamando qui il concetto dell’uomo-trino, composto da corpo, mente e spirito. Indivisibili e in reciproca tensione.
Siamo testimoni di un vasto movimento di transizione, nel sentire comune dell’umanità, intesa come organismo unitario e non solo come un insieme di singoli individui, in cui il concetto olistico sta abbracciando molti aspetti dell’esistenza: dalla relazione con i nostri simili, a quella con gli altri esseri viventi, fino ad arrivare a come ci poniamo nei confronti della Natura o dell’universo. La fascia ha attirato gli sguardi su di sé proprio adesso perché siamo emotivamente e intellettivamente pronti per comprenderne l’importanza in questo senso, il suo apporto nel farci sentire integrati in noi stessi, facendoci sentire completi, presenti e interi. Finiti e sufficienti a noi stessi. La fascia contiene il nostro universo interiore, in cui le galassie, i sistemi e le stelle fluttuano immerse e connesse reciprocamente attraverso una rete fluida.
Il muscolo è elastico, la fascia è plastica
Sebbene questa affermazione non corrisponda proprio alla realtà, ma si tratti più di una estrema semplificazione, dal momento che esistono tessuti fasciali con proprietà elastiche, da tempo si stanno osservando le proprietà mnemoniche del connettivo, che ancora oggi sono in parte un mistero da svelare.
La fascia può ispessirsi in alcune regioni se lungo la rete gravano delle linee di tensione, lungo le quali possono depositarsi nuove molecole di collagene, la proteina che è il principale componente del tessuto fasciale, formando una vera e propria imbracatura di matrice non elastica. Quando la fascia viene profondamente deformata è molto difficile poi tornare indietro, e questa può essere un’informazione interessante per comprendere la funzione del tessuto fasciale nel mantenimento della postura, ossia il modo in cui decidiamo, coscientemente o no, di abitare la nostra struttura.
In effetti Ida Rolf, creatrice del Rolfing, attraverso l’osservazione del ruolo della fascia nelle relazioni tra i delicati equilibri che mantengono forma e allineamento del corpo umano, arrivò persino al concetto rivoluzionario che toglie alla colonna vertebrale il suo tradizionale ruolo di sostegno, per integrarla all’interno di un sistema biodinamico più complesso di quello esposto dall’anatomia:
La colonna vertebrale non sostiene il peso, non è stata progettata per questo. La colonna separa i tessuti molli e protegge il sistema nervoso. È un graticcio a cui sono assicurate le componenti miofasciali.
Prendiamo l’esempio di una tenda: cosa tiene in piedi la tenda? Non è il palo centrale, ma i tiranti: il palo assicura il giusto bilanciamento spaziale tra le due parti: la colonna divide il canale neurale da quello viscerale.
Tensegrità: integrità di tensione
In un modello corporeo di tensegrità le forze sono distribuite sull’intera struttura, formata da elementi di compressione ed elementi di tensione le cui forze si armonizzano in equilibrio. In queste condizioni quando una forza viene esercitata su di una parte, è l’intera struttura che si fa carico di ritrovare l’armonia.
Nel corpo umano le ossa sono principalmente elementi di compressione, sebbene anche le ossa possano trasportare tensione, mentre la miofascia può essere considerata il principale elemento di tensione, i tiranti della tenda. Gli elementi di compressione, le ossa, si comportano come dense isole tenute in equilibrio dalle forze di tensione che ne mantengono la posizione.
Secondo questo modello il tono della fascia diventa decisivo per ottenere una struttura ben bilanciata, aggiungendo nuovi punti di vista sul corretto allineamento e sul percorso che permette ad uno squilibrio di manifestarsi. Soprattutto ci mette di fronte all’evidenza che per modificare la relazione tra le ossa può essere necessario agire sull’equilibrio delle forze di tensione che ne determinano il posizionamento.
Il modello di tensegrità è un modo semplice e diretto per spiegare come mai spesso il sintomo non si manifesta nella stessa regione della causa che lo ha scatenato, proprio in virtù di questa proprietà di trasmissione delle forze, che si spostano all’interno della rete connettiva e vengono costantemente redistribuite.
La fascia può ispessirsi, e di conseguenza modificarsi plasticamente, per varie cause che possono essere meccaniche, come un atteggiamento reiterato nel tempo: portare la borsa a tracolla sempre dalla stessa parte. Questo però può avvenire anche per ragioni differenti, come la modalità con cui il nostro organismo gestisce lo stress.
Definendo lo stress come qualsiasi situazione che mette alla prova le nostre personali risorse, questo agisce sul tessuto fasciale in modo incisivo, intossicandolo e contraendolo. Per funzionare bene la fascia deve essere idratata in modo adeguato: quanto più sarà umida, tanto minore risulterà la distinzione interna tra ossa, organi, muscoli e pelle. Tutte le parti scivoleranno reciprocamente in modo armonioso le une sulle altre dando la sensazione di un movimento unitario di tutti i tessuti in sinergia.
Questa sensazione di annullamento delle barriere interne concederà al corpo dei movimenti fluidi ed una connessione con il ramo parasimpatico del sistema nervoso autonomo, connesso a sensazioni di benessere e ricerca di intimità, di apertura verso l’altro. In questa condizione la fascia è rilasciata e manifesta appieno il proprio potenziale di sostegno, forma, tono, connessione e tensegrità. La rete fasciale, che avvolge e tiene organizzate insieme , ma distinte, le varie strutture corporee, permettendo lo scivolamento, si muove con grazia quanto più è umida, rilasciata, in comunicazione olistica con il tutto.
Uno degli effetti dello stress sulla fascia è quello di seccarla, disidratarla, e più sarà asciutta al fascia, tanto maggiore sarà l’attrito e la sensazione percepita di separazione tra le strutture interne. Questo trasmetterà una sensazione di isolamento, un bisogno di separazione, con movimenti bruschi ed una attivazione del ramo ortosimpatico del sistema nervoso autonomo, ottenendo come naturale risposta dell’organismo una diffusa contrazione dei tessuti. Uno stato di eccessiva tensione nella fascia, se mantenuto a lungo nel tempo, può innescare quel processo di ispessimento e di modificazione plastica della forma da cui è molto difficile tornare indietro.
Come mantenere una sana relazione con la fascia
Al di là delle varie tecniche manuali che possono aiutare e promuovere il rilascio fasciale, quali massaggio miofasciale, shiatsu o osteopatia biodinamica, giusto per citarne alcune, esistono anche delle pratiche che possiamo utilizzare autonomamente o con la guida di un insegnante, che permettono di mantenere una certa propriocezione dello stato generale del tessuto fasciale, a tutti i livelli, lavorando attraverso la prevenzione quotidiana per mantenerlo morbido, fluido e idratato.
L’abitudine di praticare sessioni più o meno brevi di stretching profondo e consapevole, ad esempio, è un ottimo modo per mantenere il nostro connettivo in salute. Lo yoga, in particolare la pratica dello Yin Yoga, è l’ideale per ottenere risultati sensibili in questi senso, fin dalla prima volta. Lo Yin Yoga è particolarmente adatto a lavorare sul tessuto fasciale poiché si pratica seguendo un ritmo molto lento e permanendo a lungo negli asana, rilasciando tutti i muscoli attraverso il respiro, in particolare nella fase dell’espirazione, quella in cui si possono lasciar andare tutte le tensioni di varia natura, sia essa fisica, mentale o emotiva. Si tratta di un lavoro molto sottile e profondo, che ha effetti su muscoli, sistema nervoso, pelle, fascia, ma anche sui corpi sottili, poiché dietro ad ogni tensione muscolare spesso si nasconde una tensione emotiva in cerca di protezione.
La chiave per comprendere questa pratica, sia a livello intellettivo che esperienziale, è proprio il tempo, il tempo che ci si concede per immergersi nel proprio spazio interiore, il tempo che si deforma, rallenta fino quasi a sospendersi, un tempo necessario in cui il tessuto connettivo può abbandonarsi e aprirsi per liberare tutte le tensioni trattenute, permettendoci di utilizzare al meglio le energie in esse compresse e che ora sono a nostra disposizione. Ovviamente in questa pratica vengono scelti asana adatti allo scopo, posizioni che permettano al corpo di permanervi a lungo, dai tre ai cinque minuti, rilasciando la muscolatura, una delle prime porte da varcare, in attesa, senza attendere, che la fascia si srotoli e si conceda.
La pratica yogica, inoltre, è un ottimo sentiero per accedere alla meditazione, altra abitudine quotidiana preziosissima da inserire nelle nostre giornate così piene di stimoli e impegni. La meditazione aiuta a gestire lo stress e a porsi alla giusta distanza da tutto ciò che la vita ogni giorno ci pone di fronte, coltivando uno spazio di quiete profondo, immutabile e non violabile, da poter contattare in qualunque momento o situazione. La meditazione è un movimento all’indietro e verso il basso, che ci riporta a casa, verso il Tutto di cui siamo parte, come una piccola, infinitesimale stilla della luce cosmica che tutto pervade e invade.
Gli effetti a breve e a lungo termine della meditazione, qualunque sia la durata delle sessioni nel corso della giornata, la rendono una vera alleata per la salute del nostro tessuto connettivo, così sensibile alla sfera emotiva. Ma questa è solo uno dei meravigliosi doni che questa pratica millenaria ci fa ogni volta che le dedichiamo del tempo, e che potrete assaporare in un solo modo: sedendo in meditazione.
È proprio incarnandoci in un corpo che abbiamo deciso di consentire all’anima di vivere questa straordinaria avventura dell’esistenza, attraverso i sensi, in relazione con il mondo esterno. Il corpo è il nostro tempio e per poter gioire del nostro viaggio non dobbiamo far altro che provare a comprenderlo e prenderci cura di lui ogni giorno facendo del nostro meglio per ascoltarlo, celebrarlo e rispettarlo.
Jader Tolja, uno degli autori del bellissimo libro ‘pensare col corpo’, in barba a Cartesio e al suo ‘cogito, ergo sum’, scrive:
Perché pensare con pochi centimetri di materia grigia quando è possibile usare una intera rete, distribuita su quasi due metri di altezza?
Articolo a cura di LIA CURRIER